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La vita studentesca nella Madrid di fine Ottocento

di Nino Recupero

Recensione di El Arbol de la ciencia di Pio Baroja tratta da Bollettino d'Ateneo n. 3, 2003


Pio Baroja, El Arbol de la ciencia, Madrid 1911 (tr. it. Marietti, Genova 1991)

È il primo giorno di università, nella facoltà di Medicina di Madrid, come lo narra Pio Baroja nel romanzo El árbol de la Ciencia (1911): un classico tra i romanzi di formazione, tra i maggiori dello scrittore di origine basca, che di solito si classifica come protagonista della “Generazione del ’98” mentre merita di esser meglio conosciuto come forse l’unico grande autore veramente europeo della Spagna del Novecento.

Gli studenti avevano riempito i banchi quasi fino in cima. Non c’era ancora il cattedratico, e tra gli alunni più turbolenti, qualcuno cominciò a battere per terra col bastone; diversi lo imitarono e si produsse un gran frastuono.

Improvvisamente si aprì una porticina nel fondo della tribuna, e apparve un vecchio signore, tutto imbacuccato, seguito da due assistenti giovani. L’apparizione teatrale del professore e dei suoi aiuti provocò mormorii; uno tra i più sfacciati cominciò ad applaudire, e vedendo che il vecchio cattedratico non solo non si offendeva ma salutava in segno di ringraziamento, tutti applaudirono ancora di più.

- È ridicolo – disse Hurtado.

- Pare che a lui non sembri – rispose Aracil, ridendo – ma se è tanto sciocco che gli piacciono gli applausi, lo applaudiremo.

Il professore era un poveruomo, presuntuoso e ridicolo. Aveva studiato a Parigi, e aveva acquisito i gesti e le posture manierate di un francese petulante. Cominciò il suo discorso di saluto, enfatico e altisonante, con un tocco sentimentale: parlò del suo maestro Liebig, del suo amico Pasteur, del suo compagno di studi Berthelot, della Scienza, del microscopio… Aveva l’aspetto severo di un padre nobile a teatro, e uno studente sfrontato intonò con voce cavernosa i versi di don Diego Tenorio quando, nel dramma di Zorilla, entra nell’osteria del Lauro:

Che un uomo del mio rango

Discenda a sì infima magione!

Gli studenti più vicini scoppiarono a ridere, mentre tutti si voltarono a guardare i disturbatori.

- Che c’è, che succede? – disse il professore inforcando gli occhiali e avvicinandosi alla ringhiera della tribuna. – Da quelle parti qualcuno ha perduto i ferri? Chi siede vicino a quest’asino che raglia con tale perfezione, è pregato di allontanarsi, perché i suoi calci devono essere necessariamente mortali.

La prima parte del romanzo, dedicata agli anni di formazione universitaria del protagonista, Andrés Hurtado, riflette con forte immediatezza l’esperienza del suo autore, tanto che la critica può mettere a confronto passo a passo il romanzo con il secondo volume delle Memorie di Baroja. L’Università di Madrid, l’insegnamento, la vita studentesca nei primi anni del decennio 1890 sono dipinte in maniera molto realistica. La trasfigurazione artistica (prevalentemente in chiave pessimistica, per il Nostro) qui non ci interessa tanto quanto il quadro dell’Università ottocentesca, scientista e positivista, che si è mantenuto come modello europeo fino alla seconda metà del Novecento.

È un’università nella quale si studia duro, e non tutti passano gli esami; chi resta indietro, il ripetente, il rezagado, deve contentarsi di piccoli e faticosi incarichi nell’internato, che tutti gli studenti frequentano unendo teoria a pratica. L’ambiente intellettuale è vivace, e che questa vivacità stia dalla parte studentesca è caratteristico, appunto, della generazione di fine secolo in Spagna: spietata è la critica, come si vede nel brano citato all’inizio, contro quei docenti che appaiono superati, parrucconi o imitatori dei francesi. Ma la critica può essere spietata perché questi studenti leggono e si aggiornano. Li vediamo così passare le nottate al caffè chiacchierando di ragazze e di corride, ma anche di storia e di politica; e il protagonista legge e discute coi suoi amici la Critica della ragion pura di Kant e Schopenahauer.

Al caffè, Sanudo e i suoi condiscepoli non parlavano che di musica, dell’opera al Teatro Real, e soprattutto di Wagner. Wagner era il messia, Beethoven e Mozart i precursori. Alcuni beethoveniani non accettavano Wagner, non dico come il messia, ma neanche come un continuatore dei suoi predecessori, e non parlavano altro che della Quinta e della Nona, in estasi.

Anche nell’Italia di allora la disputa tra seguaci di Wagner e di Verdi fu sintomo dell’ansia di rinnovamento europeo della cultura di un paese che ancora cercava se stesso. Nel romanzo di Baroja, la scienza è l’ossessione di una generazione di spagnoli, che misura la propria arretratezza rispetto al resto d’Europa, e che proprio nell’avvento di una società scientifica spera per la rinascita del paese. Illusioni, perché con la scienza si uccide il sentimento e, come mostra la vicenda del protagonista, la pratica della scienza ha come unico sbocco il suicidio (in forme simili a quelle con cui, trenta e più anni dopo, anche l’Autore si darà la morte, asetticamente, da esperto clinico). Ma che l’Università fosse il nido dove fermentava questo pensiero, è il dato che emerge dal romanzo.

A San Carlos era verità indiscutibile che [don José de] Letamendi era un genio, una di quelle aquile che sopravanzano il loro tempo… Andrés, ansioso di trovare una qualsiasi cosa che portasse al fondo dei problemi della vita, lesse il libro di Letamendi con entusiasmo. L’applicazione delle Matematiche alla Biologia gli parve ammirevole. Divenne subito un convertito… Una sera, Andrés andò al caffè dove si riunivano Sanudo e i suoi amici e cominciò a parlare delle dottrine di Letamendi, e spiegarle e commentarle… Uno di loro cominciò a ridere.

- Perché ride Lei? – chiese Andrés sorpreso.

- Perché in ciò che Lei dice c’è una gran parte di sofismi e di falsità. Tanto per cominciare, le funzioni matematiche sono molto più numerose che la somma, la sottrazione, la divisione e la moltiplicazione…

Andrés, che era andato al caffè credendo che le sue proposizioni avrebbero convinto gli studenti di ingegneria, restò perplesso e imbarazzato di fronte alla propria sconfitta. Rilesse il libro di Letamendi, continuò a seguirne le lezioni, e si convinse che tutta quella storia della “formula della vita” e dei relativi corollari, che gli era sembrata prima seria e profonda, non era altro che gioco di prestidigitazione, talora ingegnoso, talora volgare, però sempre priva di realtà né metafisica né empirica.

Più in là, Baroja denuncia ancora la meschinità del ceto docente, la corruzione aperta, il disimpegno e la crudeltà dei medici responsabili delle corsie d’ospedale. Nonostante tutto ciò, ne riesce il quadro di una istituzione il cui scopo primario è formare la persona, dare un senso al sapere, prima ancora che attrezzare quello che, secondo i canoni dell’epoca, è il professionista.

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