“Until Tomorrow”: giusto e non giusto

Il film di Ali Asgari, incentrato su un'apparente tipica storia iraniana di individui che lottano contro un sistema rigido e ingiusto, rivela una storia che accomuna al di là delle interpretazioni culturali. La recensione di Marta Bertuna, laureata Unict in Comunicazione della Cultura e dello Spettacolo

Marta Anna Bertuna

Dal 20 al 30 ottobre 2022 si è svolta a Valencia la "Mostra del cinema dei Mediterranei", tornata in auge nel 2018 dopo sei anni di inattività. Fondata nel 1980, nasce con l’intenzione di centralizzare la produzione cinematografica del Mediterraneo, offrendo al pubblico di appassionati rassegne di alta qualità difficilmente rintracciabili nei circuiti commerciali. 

Come afferma il presidente della Mostra, Gloria Tello, la sessione ufficiale della 37esima Mostra si è rivelata una delle più complete e diversificate degli ultimi anni, sia per l’equilibrio tra esordienti e registi affermati, sia per la ricchezza dei soggetti che dei paesi di produzione coinvolti.

Il più importante segno di accoglienza e inclusività è stato rappresentato dalla proiezione del dramma di Ali Asgari, Until Tomorrow (Ta Fada, 2022) – vincitore della secciò oficial e realizzato grazie a una coproduzione tra Iran, Francia e Qatar. L’incontro di culture, sensibilità e forme di rappresentazione ha dato vita a un prodotto che riesce nell’ardua impresa di fondere il documentaristico e l’introspettivo.

Il regista e sceneggiatore iraniano, classe '82, si è formato al DAMS dell’Università di Roma e nel corso della sua carriera ha maturato uno sguardo artistico particolare collaborando con diversi registi di chiara fama. Si è mosso in vari festival internazionali su temi socio-culturali legati all’Iran, appoggiandone alcune istanze impellenti, come la lotta delle donne.

In Until Tomorrow Fareshteh (Sadaf Asgari) è una madre single che vive in un condominio di Teheran, che si divide affannosamente tra il lavoro sfruttante in tipografia e la cura di una figlia di due mesi. Una vita dal ritmo sostenuto ma tutto sommato regolare, viene sconvolta dalla telefonata dei genitori che annunciano la loro imminente visita la sera stessa. Essi sono assolutamente ignari del fatto che la figlia ha portato avanti una gravidanza fuori dal matrimonio; non sanno e non devono sapere. 

È in questo momento che si inserisce l’elemento perturbante della narrazione che destabilizza anche quello squarcio di precario equilibrio conquistato tra lavoro e maternità.

Fereshteh deve trovare un posto dove lasciare la bambina e tutte le sue cose fino al giorno successivo. Inquieta ma apparentemente inalterabile, si rivolge alle condomine per assistenza, ma ogni richiesta di aiuto le viene negata, da donne e madri la cui disponibilità è subordinata a quella degli uomini. 

Affiancata dalla migliore amica Atefeh (Ghazal Shojaei), decide di cercare soluzione fuori dallo stretto contesto condominiale, che si rivela ben presto riflettere la drammatica realtà diffusa. Le due ragazze iniziano un’odissea all’interno degli ecosistemi socio-politici della città, scontrandosi con minacce, intrighi, estorsioni, a loro volta generate dalla paura per l’insubordinazione a qualche figura autoritaria. 

È in questo contesto che far luce sulla reale natura psicologica dei personaggi diventa superfluo, perché condizionata e soppressa da un’inappellabile entità superiore.

Se alla prima lettura della sinossi, rispetto ai temi trattati, la pellicola di Ali Asgari potrebbe apparire non originale – incentrata com’è sulla tipica storia iraniana di individui che lottano contro un sistema rigido e ingiusto – è nella totale aderenza al punto di vista della protagonista e del suo racconto in soggettiva, che si chiarisce il taglio morale dell’opera e, al contempo, la sua presa di distanza dallo stile della narrazione tradizionale. 

La cinepresa segue la protagonista in ogni suo passo, cogliendone la gestualità quasi impercettibile ma intensissima, ancorata indissolubilmente al suo ruolo di madre accudente. In un caos gelido e logorante tutto sembra smembrarsi e deteriorarsi, schiacciato dal germe della disumanità: gli unici corpi e anime inscindibili sono quelle della madre e della neonata, in stato di reciproca appartenenza, così come deve essere. 

In particolare la scena in cui la bimba viene messa dentro una valigia per sfuggire al controllo delle guardie all’ingresso della residenza universitaria di Atefeh, trasmette un senso di terrore e di soffocamento natale: esso è, in realtà, lo specchio di un amore sessuale, materno negato, a cui il Paese di Fareshteh, si ostina a non riconoscere priorità umana e istituzionale.

Un lungo piano sequenza dal sapore amaro e fortissimo, cattura Fareshteh, pochi attimi dopo aver lasciato la figlia all’amica per la notte, nel suo viaggio verso casa. Tuttavia, in questo caso, c’è una discrepanza di fondo: non si tratta di un’eroina trionfante che ritorna a casa dopo aver portato a termine l’arduo compito, ma di una madre dignitosa e addolorata che non può accettare la separazione dalla propria creatura per una ragione "altra" impostale. 

Come nella sequenza precedente, l’espressività muta e efficace dell’attrice mette lo spettatore nella condizione di comprenderne la successiva e ultima mossa: Fareshteh ritorna indietro per recuperare la figlia, compiendo la sua reale missione, malgrado le conseguenze che essa comporterà.

L’avventura travagliata di Fareshteh è in realtà la sua salvezza, il percorso tortuoso e sofferto attraverso cui si prende coscienza di un dualismo oggettivo,che travalica le interpretazioni culturali, assestandosi su un’unica e universale linea di reciproca fratellanza: ciò che è giusto e ciò che non lo è e non può mai esserlo. Ali Asgari costruisce un’opera incantevole che legge la maternità, se pur travagliata e nata in circostanze avverse, come strumento di riscatto, di coraggiosa presa di coscienza, e affermazione inalienabile della verità del cuore.