Tra rabbia e malinconia. “Rageen Vol. 1” degli Okiees

Un progetto sperimentale da Zō tra musica, immagini audio-visive e teatro per restituire la fuga dei migranti

Enrico M. Riccobene

Okies: il chitarrista e cantante Andrea Rabbito - principale autore e direttore artistico dell’intero progetto – ci spiega che è così che i californiani chiamavano, con disprezzo, i migranti provenienti dall’Oklahoma, in cerca di nuove speranze alla volta della California. L’okiecome archetipo del migrante, come nei libri di Faulkner e Steinbeck, e nelle fotografie di DorotheaLange. 

La seconda è in Okiees, nome del gruppo, è invece una volontaria alterazione linguistica: perché è questo che l’ensemble capitanato da Rabbito si propone di fare: giocare con i linguaggi espressivi, alterarli, contaminarli. Sin dal nome, dunque, una dichiarazione programmatica.

Il 12 gennaio 2023 gli Okiees hanno portato in scena al Centro Rageen Vol. 1, prima parte di una trilogia. Crasi tra rage e spleen, il titolo trasmette da subito le coordinate emotive del progetto. Un progetto transmediale, combinazione di diverse e inestricabili modalità espressive.

Dopo l’introduzione di Rabbito, sono saliti sul palco gli altri componenti della band: il violinista Adriano Murania; la cantante Kasumi Hiyane e, dietro tastiere, synth e campionatori, Fabrizio Motta. I testi delle canzoni, così come i brani letti dall’ospite speciale, il maestro Pippo Delbono, figura di primo piano nel teatro italiano, narrano la storia di Roger Benjamin e Benjamin Rye, che si ritrovano in fuga per mare fino a giungere proprio nella città di Catania.

La band propone un post-rock melodico, con forti accenni dinoiseefolk, malinconiche dissonanze date dai lamenti del violino, un cantato grunge, graffiante e sofferto, addolcito però a tratti dal limpido controcanto di Hiyane, il tutto sorretto dal tappeto sonoro intessuto da Motta. Dodici brani, per altrettanti capitoli, idealmente divisi, come un disco o una cassetta, in Side A e Side B.

Accompagna l’esibizione (o ne è accompagnato) un film di montaggio, situabile più nel dominio della videoarte che del cinema classico, in cui formati e linguaggi audiovisivi di provenienze diversissime tra loro si confondono e si trasformano. Ne deriva un susseguirsi di immagini apparentemente aleatorio e caotico, ma da cui scaturisce una originale funzione del montaggio: le immagini hanno senso solo in quanto parte di un flusso, tasselli di una sequenza più ritmico-evocativa che narrativa.

Si alternano: riprese digitali a bassa risoluzione di Catania; vecchi cartoni animati; film delle origini; film industriali, documentari, cinegiornali, ecc. Ne emerge un’insistenza su alcune tracce emotive, legate alla rabbia e alla malinconia, del viaggiare, del vagare, del fuggire, del mutare. 

Un flusso di coscienza che prende corpo nelle immagini, corrispettivo visuale dello stato d’animo dei protagonisti, di Roger Benjamin in particolare(che già dalla quasi omonimia richiama il Walter filosofo-flâneur che fece del vagare metodo prediletto di indagine intellettuale e filosofica sulla modernità).

Il tutto è strutturato dagli interventi, a cui si accennava prima, di un narratore d'eccezione: Pippo Delbono, in questa occasione presente solo virtualmente tramite scene pre-registrate, ma la cui presenza fisica è prevista in altre esibizioni. Le parole lette da Delbono sono interpretate visivamente dagli acquerelli di Rabbito.

Rageen Vol. 1 è un viaggio interiore ed esteriore, materiale e astrale, interstellare e submarino, che proprio dalla frammentarietà e dalla eterogeneità degli elementi in gioco trae tutta la sua forza, ma anche – forse – la sua fragilità: è difficile immaginare separate le varie parti che compongono il quadro, che probabilmente prese da sole non avrebbero la stessa potenza.

Un esperimento, dunque, ben riuscito e stimolante, che presuppone in ogni caso la presenza (sia fisica che mentale) e la collaborazione attiva dello spettatore che, coinvolto nella vicenda umana dei protagonisti, non può non interrogarsi sulla potenza emotiva di un’opera transmediale e sinestetica. E ci si chiede, ancora una volta: ha ancora senso pensare le arti (e gli artisti) per compartimenti stagni?