I racconti della peste

La pièce, prodotta in sinergia con il Teatro Nazionale di Genova, è andata in scena al Teatro Stabile dal 22 novembre al 4 dicembre. Ce ne parla Alessandro Di Costa, studente del corso di laurea in Comunicazione della cultura e dello spettacolo al Disum di Unict

Alessandro Di Costa

Firenze, anno 1348: la peste infuria tra le mura cittadine.

Un gruppo di sconosciuti si rifugia in una villa di campagna per scampare al contagio. Durante il lockdown, circondati da elettrodomestici, pacchi Amazon e altre vestigia del mondo contemporaneo, i cinque raccontano storie per allontanare la paura della morte. Ma quando la fantasia prende vita rischia di sostituire la realtà.

Lo straordinario cortocircuito tra passato e presente, nato dalla penna di Mario Vargas Llosa, ripropone una cornice molto simile a quella del Decameron, portandone in scena lo stesso autore. I personaggi dello scrittore peruviano interpretano i protagonisti di alcune celebri novelle boccaccesche attraverso una mise en abyme dinamica e coinvolgente, che moltiplica i piani narrativi. In questo modo le storie non vengano solo raccontate, ma agite.

Con disinvoltura e leggerezza, l’attenta regia di Carlo Sciaccaluga entra in dialogo con il pubblico e ricorda quanto l’epoca in cui le storie sono state scritte sia simile alla nostra. L’analogia con il presente è colta in tutta la propria complessità: la Peste Nera non richiama solamente l’attuale pandemia, o la guerra alle porte d’Europa, ma un morbo di origine antropica in senso anche esistenziale. Gli spazi di riflessione sono sostenuti da un ritmo vivace, con momenti di geniale irriverenza, grazie alle brillanti interpretazioni di Angelo Tosto, Roberto Serpi, Barbara Gallo, Giorgia Coco e Valerio Santi.

I due atti in cui si articola l’opera sono una potente apologia di una capacità unica, connaturata e inalienabile dall’essere umano: il raccontare. È tramite la fantasia che il gruppo di fuggiaschi riesce a superare una realtà di morte e sofferenza, creandone un’altra che la peste non possa raggiungere.

In un mondo troppo spaventoso per essere vero, ecco che la poiesis, l’atto creativo, si trasforma in biosis, unico modo per (soprav)vivere.
Allora ogni forma di individualismo viene meno e, mentre il confine tra realtà e finzione svanisce, solo ciò che è vissuto insieme resta credibile, diventa rito collettivo, si fa teatro.

È questo il rimedio che Vargas Llosa e Boccaccio, tra corsi e ricorsi storici, forniscono ai propri contemporanei.
Così, oggi come nel Trecento, non ci resta che vivere guardando l’abisso, o raccontare per vivere in un altro mondo possibile.