Dio non parla svedese: una lenta discesa verso l'inferno terreno

La recensione dello spettacolo di e con Diego Frisina andato in scena al Centro Universitario Teatrale, nell'ambito del "Catania Off Fringe Festival", scritta per noi da Oceania Grasso, studentessa di Lettere al Disum di Unict

Oceania Grasso

Dio non parla svedese è un monologo crudo e violento, che scava nel profondo alla ricerca di una spiegazione, un significato alla malattia così come alla vita. Scritto e interpretato da Diego Frisina, diretto da Ludovico Buldini, pur essendo realizzato da giovani autori è uno spettacolo che sa parlare in modo molto serio, confrontandosi con ansie e ragionamenti propri del nostro tempo.

L’azione si svolge come un in loop, iniziando dal finale e finendo come l’inizio. Ripercorrendo la storia del protagonista capiamo come e quanto una vita possa essere ‘segnata’, quando si scopre che si è nati con una data di scadenza più vicina di quella immaginata. 

Dalla scoperta della malattia in giovane età alla completa disillusione sull’amore, dalla violenza che in qualche modo si cerca di giustificare alla terapia che non serve a raggiungere la catarsi sperata, il protagonista inizia una lenta discesa verso un inferno terreno che troverà sollievo soltanto nell’aldilà.

L’interpretazione di Frisina coinvolge e commuove, trasmettendo allo spettatore tutto il dolore, la tristezza e la rassegnazione di un giovane che avverte la sua vita come una bomba ad orologeria: un ticchettio costante che fa impazzire e il peso di una speranza disattesa troppo presto.

La scenografia completamente spoglia serve a dare l’idea di un non-luogo esterno a tutto, ma anche a rappresentare uno spazio mentale chiuso e isolato. Gli unici oggetti di scena sono una sedia, che l’attore muove magistralmente per tutto il palco in base all’utilità, un carillon che suona una musica a tratti confortante e a tratti derisoria, e un coltello, simbolo di una vita sempre vissuta sul filo della lama. 

Altra componente fondamentale sono luci e suoni: entrambi inizialmente vengono ‘comandati’ dal protagonista, poi, come tutto ciò che lo circonda, anch’essi sfuggono al suo controllo.

Pur nella semplicità della messa in scena il monologo di Frisina e Buldini riesce a trascinare dentro la sua narrazione, portando a perdersi nel labirinto di dolore del protagonista, nella sua ineluttabile tragedia messa a nudo davanti ai nostri occhi.